Una parola per volta per imparare il dialetto montellese
peràzza : pera primaticcia
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S.S. SalvatoreTratto dal Libro Sulle orme del lupo di Carmine Palatucci Ed. Altirpinia
Nel mese di agosto ogni montellese, almeno una volta, risale il sacro monte per la visita al S.S. Salvatore (vedi foto). Con i moderni mezzi di trasporto si arriva in dieci minuti fino a 1000 metri di altezza, ma tanti anni fa era tutto diverso. I preparativi cominciavano qualche giorno prima se non addirittura settimane prima, specialmente per chi aveva parenti emigranti. Era l'occasione per riunire la famiglia in un momento di gioia e di fede, un rito che risale alla metà del XIV secolo. In quel tempo la cappella era dedicata a S. Elia e situata ai piedi del monte, nei pressi del fiume Calore. Più tardi con la vittoria dei cristiani sui musulmani a Belgrado, la Chiesa istituì la celebrazione della Trasfigurazione da festeggiare il 5 agosto. Ed è proprio in quel giorno che i montellesi risalgono il sacro monte, anche se il pellegrinaggio si svolge per tutto il mese di agosto. Proprio per questa ricorrenza, la chiesetta fu spostata sulla cima del monte e prese il nome di S.S. Salvatore. E torniamo ai preparativi. Già dal giorno prima le donne preparavano teglie di pasta al forno, caciocavalli, soppressate, sott'oli e sott'aceti, pane, pizze, biscotti e panettoni, tutto rigorosamente cucinato in casa. Il raduno era fissato alle quattro di mattina a casa di genitori o nonni. Nel paese il movimento era quello delle più grandi manifestazioni. I pellegrini forestieri partivano dai loro paesi la sera prima. Da Gesualdo, Fontanarosa, Villamaina, Frigento, Mirabella, Torella, centinaia di persone camminavano tutta la notte cantando e si ritrovavano, alle prime luci dell'alba, alle pendici del monte, approfittando della frescura per la risalita. Per i forestieri, a parte il momento di fede, era un'occasione necessaria perché segnava l'appuntamento con i datori di lavoro per la raccolta delle castagne. Si patteggiava il prezzo a giornata o a mese, in ottobre. Da questo la parola dialettale mesaruli. In paese i gruppi familiari aspettavano impazienti il solito ritardatario, poi si avviavano. Tascapani, borse, sacchi, sporte e ceste ricolme di cibarie venivano caricate su asini e carretti, sulle spalle dei più forti e sulla testa delle donne. Al Largo dell'ospizio era d'obbligo la prima sosta. Si riempivano gli otri d'acqua, quelli del vino erano già pieni, e si comprava dai melonari il cocomero, quindi si ripartiva. Attraversando Il ponte della lavandara (vedi foto) gli anziani raccontavano di quando il mulino funzionava, dei tanti panni lavati dalle loro nonne e delle trote pescate, promettendo ai bambini un buon bagno ristoratore al ritorno, magari sotto la cascata. Alla Prima cappella (vedi foto) una preghiera e uno sguardo in alto, alla mèta. Due i percorsi per il monte: la carrozzabile, percorsa dai forestieri, più lunga ma più facile e meno faticosa, e le scorciatoie, una sequenza di mulattiere più ripide e preferite dal montellesi che con orgoglio montanaro le indicano ancora oggi ai più giovani. Durante le due ore di tragitto molti pellegrini camminavano scalzi. Chi per fede, chi 'per grazia ricevuta'. Fra questi, numerose donne anche anziane che osavano vestirsi di rosso con una fascia azzurra di traverso sul petto, segno di un voto fatto. I ricci dei castagni circostanti e i sassi del sentiero sembravano non scalfire i piedi nudi. Un segno di tenacia e volontà del popolo irpino, avvezzo da sempre ad ogni sofferenza. Un grande popolo che non conosce la parola sconfitta. Alla Seconda cappella (vedi foto) un'altra sosta per tirare il fiato ed ammirare la bellissima maiolica raffigurante il SS. Salvatore, poi si ripartiva. Allorché ai castagni subentravano i lecci, si era vicini alla méta. Una croce in pietra, ancora oggi, segnala gli ultimi 100 metri. La fatica svaniva ai piedi della scalinata d'ingresso al Santuario. La prima messa vedeva la chiesa ed il piazzale antistante gremiti di fedeli. Mons. Gastone Mojaischi Perrelli, unico abitante del luogo, celebrava il sacro rito e accoglieva tutti paternamente, con un sorriso, a qualsiasi ora del giorno. Dopo la santa Messa, una salutare bevuta d'acqua fresca al Pozzo dei miracoli e poi tutti su al campanile a ripetere il rito che solo i montellesi sanno fare: suonare la campana che pesa 22 quintali. Essa si suona in quattro, sincronizzando un passo che sembra una danza, infatti il gesto ci viene insegnato da piccoli, altrimenti si rischia grosso. Le funi potrebbero attorcigliarsi al collo o ai piedi con gravi conseguenze. E' commovente vedere anche gli ultrasessantenni cimentarsi in questo rito. Ci si dà il cambio senza fermare la campana e il suo suono ininterrotto, per giorni, si ode fino a Frigento e oltre. I forestieri che pernottano a Montella o nei dintorni restano meravigliati perché il suono non procura fastidio neppure la notte. Al termine della suonata, i meno esperti hanno le mani piene di bolle, a volte anche sanguinanti per lo strisciare delle funi, ma sono i più felici. Nella cantina sottostante il piazzale, le donne preparavano la tavola con le tante pietanze portate da casa. Le tavolate erano enormi, ognuna occupata da un gruppo familiare. La gioia era immensa, semplice. Gli emigranti trovavano accoglienza nella Casa del Pellegrino. L'Arcivescovo mons. Ferdinando Palatucci, per noi montellesi sempre Don Ferdinando, Santillo ed altri si prodigavano affinché al Santuario tutto funzionasse alla perfezione. Nel tardo pomeriggio, prima della partenza, era d'obbligo una visita al negozio di ricordini e cartoline dove i bambini venivano ricoperti, per scherzo, da numerosi timbri raffiguranti l'immagine del SS. Salvatore. Riempiti quindi gli otri con l'acqua del Pozzo del miracolo s'imboccava la strada del ritorno accompagnati dal suono della campana.
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