Una parola per volta per imparare il dialetto montellese
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La SavinaTratto dal Libro Sulle orme del lupo di Carmine Palatucci Ed. Altirpinia
Capita, a volte, inspiegabilmente, di riconoscere un posto che si è sicuri di non aver mai visto. Questo è forse l'inconscio di vite ancestrali passate che ci riporta a rivivere sensazioni strane, suggestive. Succede quasi a tutti e spesso in luoghi che si trovano a due passi da casa. Partimmo in una decina, di buon mattino, seguendo il letto asciutto di uno dei torrenti affluenti del Calore, in direzione la Celeca. A circa sette chilometri da Montella, i primi segni di acqua corrente. Acqua che pian piano si trasformava in ruscello che aumentava diventando un torrente. L'acqua, sempre più gelida, ci intorpidiva i piedi e mentre attraversavamo gole profonde, sommersi fino al petto, ci mancava il respiro. Cicuta, arbusti e faggi formavano la coreografia. Piante di belladonna alte fino a tre meri (casi eccezionali), ricoperte da bacche nere ci annunziavano la fine dell'estate. Il cammino proseguiva ora lento ora spedito, a seconda del percorso. Ad un tratto, tracce di suini e grugniti ci distrassero. Un branco di maiali cinghialati (maiali che si accoppiano con i cinghiali e danno vita a suini ibridi) fuggiva davanti a noi, fermandosi ogni tanto per proteggere l'avanzata dei piccoli, tutti striati da sembrare zucche. Eravamo alla Savina, luogo selvaggio ed impervio situato proprio sotto il Nenne (vedi foto) del massiccio calcareo della Celeca. Un attimo di sosta presso le prime captazionì idriche dell'Ente Alto Calore della Savinella e poi via a risalire il torrente. Numerose e suggestive cascatelle abbelliscono da sempre questi luoghi. Per risalirle bisogna essere preparati perché presentano, anche se minime, molte difficoltà. L'emozione era tanta. Aiutandoci a vicenda, a volte cadendo in acqua, a volte sotto docce fredde, riuscimmo a risalirle quasi tutte. Quelle impossibili si aggirano scalando i pendii scoscesi laterali. Ma poiché la fatica è tanta si cerca di evitarli. Una salamandra pezzata (vedi foto), tipico abitante di questi luoghi, faceva capolino sopra un masso, poi nuotava nel torrente, un attimo dopo scompariva dalla nostra vista, non prima di essere stata fotografata. Come una diva che si concede per un attimo e va via soddisfatta. Era mezzogiorno e lo stomaco reclamava i suoi diritti. In una piccola radura fu stesa una tovaglia su cui troneggiava ogni ben di Dio, tutto rigorosamente nostrano: caciocavallo, sopressate, vino aglianico ecc., in barba a chi predica che in montagna bisogna restare leggeri. Stavamo per addormentarci quando un lontano scampanio ci riportò alla realtà, spingendoci a proseguire. Le cascate erano ormai sempre più impossibili da scalare; la vegetazione, più fitta, molte farfalle svolazzavano ed il torrente era tumultuoso. Ad un tratto, come se qualcuno ci avesse trasportato nelle foreste del Guatemala, fra i templi Maya, ecco apparire mura, costruzioni e scalinate ricoperte da muschio e folta vegetazione, che insieme al torrente regalano al visitatore grandi emozioni. Quasi tutti avemmo la sensazione di essere già stati in quel posto. Forse gli dei della Celeca vogliono che ogni irpino porti in sé il ricordo della propria terra, ovunque si trovi. Un ricordo ancestrale di migliaia d'anni fa, quando le nostre genti avevano eletto questi monti a luoghi sacri.
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